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Non so più in quale anno mi avventurai a teatro per la seconda volta; comunque si raccoglievano fondi per le vittime dell'inondazione dello Hupeh, e T'an Hsin-p'ei1 era ancora vivo. Il biglietto costava due dollari; così oltre a dare un contributo per le vittime, si poteva andare al Teatro Numero Uno a vedere l'opera con attori quasi tutti di primo piano, fra cui T'an Hsin-p'ei in persona. Comprai un biglietto soprattutto per accontentare il tipo che faceva la colletta, ma uno di quelli che amano ficcare il naso negli affari degli altri ne approfittò per spiegarmi perché bisognasse vedere T'an Hsin-p'ei. Dimenticai allora il baccano infernale di pochi anni prima e andai a teatro, anche perché quel biglietto mi era costato caro, e mi sarei sentito a disagio se non l'avessi usato. Mi dissero che T'an Hsin-p'ei entrava in scena molto tardi e che il Teatro Numero Uno era moderno e non c'era da fare a botte per trovare un posto. Ciò mi rassicurò e attesi che fossero le nove per uscire. Con mia grande sorpresa il teatro era pieno come l'altra volta; non c'era neanche un posto in piedi, così dovetti cacciarmi tra la folla, in fondo alla sala. Sulla scena c'era un attore che interpretava la parte di una vecchia. Agli angoli della bocca aveva due rotolini di carta accesa, e gli era accanto una guardia degli inferi. Cercai di riflettere e immaginai che fosse la madre di Maudgalyayana2, giacché poco dopo comparve un bonzo. Non conoscendo il nome dell'attore, lo chiesi a un grosso signore che si trovava alla mia sinistra, schiacciato anche lui dalla folla. Mi lanciò uno sguardo carico di disprezzo, poi disse: "Kung Yün-fu3! ". Compresi di aver commesso uno sbaglio e arrossii dalla vergogna, e in cuor mio decisi di non fare altre domande. Dopo, cantarono la protagonista e la sua cameriera, poi un vecchio, e poi altri personaggi che non riuscii ad identificare; in seguito ci fu una grande mischia; successivamente due o tre persone che si picchiavano. E così il tempo passava: le nove, le dieci, le undici, le undici e mezzo, le dodici, ma T'an Hsin-p'ei non compariva.
In vita mia non avevo mai atteso con tanta pazienza. Ma il respiro affannoso del grasso signore accanto a me, più il fracasso, il tintinnio, il suono dei gong e dei tamburi, il turbinio dei colori e l'ora tarda mi fecero improvvisamente capire che quel posto non faceva per me. Macchinalmente mi girai, cercando di aprirmi un varco tra la folla; sentii allora che il posto dietro di me si era riempito: forse del lato destro del grasso signore elastico. La ritirata era fuori questione; non mi restò che spingere e spingere fino a raggiungere l'uscita. A parte i risciò che aspettavano alla porta, una decina di persone che guardavano il programma, e un gruppetto che non guardava nulla, ma che forse aspettava le signore alla fine dello spettacolo, per la strada non c'era nessuno. E T'an Hsin-p'ei non si era fatto ancora vivo…
Ma l'aria della notte era così frizzante che mi penetrava fino alle ossa; era la prima volta che a Pechino respiravo un'aria così buona.
Quella notte dissi per sempre addio all'opera cinese. Non ci pensai mai più, e quando mi capitò di passare davanti a un teatro, fu sempre con indifferenza, perché sentivo che eravamo separati da un abisso.
Ma qualche giorno fa mi è capitato di leggere un libro giapponese; sfortunatamente non ricordo il titolo del libro né il nome dell'autore, ma era sull'opera cinese. In un capitolo diceva che l'opera cinese con tutti quei gong, cembali, urli e salti fa girare la testa allo spettatore; aggiungeva che non è fatta per essere rappresentata in teatro, ma che data all'aperto e vista da lontano non manca di un certo fascino. Ho avuto la sensazione di vedere espresso quello che pensavo ma che non ero mai riuscito a tradurre in parole, poiché ricordavo di aver visto in campagna un'opera veramente buona, ed era forse per questo che, giunto a Pechino, ero andato due volte a teatro. È un vero peccato che non riesca a ricordare il nome di quel libro.
Quanto all'epoca in cui vidi quell'opera, accadde tanto, tanto tempo fa; dovevo avere non più di undici o dodici anni. Da noi, a Lu-chen, c'era questa usanza: le donne sposate che non si occupavano ancora dell'amministrazione della casa, andavano a passare l'estate dai genitori. Benché la madre di mio padre fosse ancora molto robusta, mia madre aveva già alcune responsabilità, perciò d'estate il suo soggiorno a casa era molto breve e poteva prendersi solo qualche giorno dopo la visita alla tomba degli antenati. In quel periodo andavo anch'io a stare dai suoi genitori. Abitavano in un posto chiamato P'ing-ch'iao, non lontano dal mare; era un piccolo villaggio sul fiume, completamente fuori mano, dove tra contadini e pescatori non c'erano trenta famiglie e l'unico negozio era una piccola drogheria. Ma io lo trovavo un vero paradiso, non solo perché ero accolto come un ospite di riguardo, ma perché non ero costretto a studiare il Libro delle odi4.
C'erano molti bambini con cui giocare; poiché ero un forestiero venuto da così lontano, avevano il permesso di lavorare meno per venire a giocare con me. In un villaggio tanto piccolo, l'ospite di una famiglia diventa, per così dire, l'ospite di tutta la comunità. Avevamo tutti pressappoco la stessa età, ma non eravamo della stessa generazione; molti di loro erano infatti miei zii o prozii, giacché nel villaggio discendevano tutti dallo stesso clan e portavano lo stesso cognome. Ma eravamo buoni amici, e se per caso bisticciando picchiavo uno dei miei prozii, nessuno nel villaggio, giovane o vecchio che fosse, parlava di "mancanza di rispetto per gli anziani". Il novantanove per cento degli abitanti non sapeva né leggere né scrivere.
Passavamo la maggior parte del giorno a scavare vermi che fissavamo a piccoli uncini di rame, poi ci distendevamo per terra, lungo il fiume, a cacciare gamberi. Tra le creature acquatiche, i gamberi sono certamente le più stupide; si conficcavano in bocca l'uncino, volontariamente, con le loro stesse tenaglie, così in poche ore ne avevamo una grande ciotola piena. Di solito li davano a me. A parte questo, portavamo fuori i bufali, ma forse perché sono animali superiori, buoi e bufali sono ostili agli estranei e perciò mi guardavano con disprezzo, sicché non osavo avvicinarmi. Così, li seguivo da lontano, tenendomi a rispettosa distanza. In queste occasioni, i miei giovani amici non vedevano più in me colui che sapeva recitare versi in lingua classica e mi prendevano in giro a più non posso.
La cosa che desideravo di più era andare a Chao-chuang a vedere l'opera. Chao-chuang era un villaggio un pochino più grande del nostro, a circa due miglia di distanza. P'ing-ch'iao era troppo piccolo per allestire uno spettacolo, e ogni anno dava una certa somma a Chao-chuang per organizzarne uno in comune. A quell'epoca non mi chiedevo perché facessero l'opera ogni anno; ora che ci penso, capitava o per la processione di primavera o per il sacrificio del villaggio.
Compivo quell'anno undici o dodici anni, e il giorno tanto atteso arrivò. Sfortunatamente, quella mattina non si riusciva a trovare una barca. Il villaggio ne aveva una sola piuttosto grande che partiva la mattina e tornava la sera, perciò non potemmo usarla; quanto alle altre, erano tutte troppo piccole. Qualcuno andò al villaggio vicino a chiedere se avessero delle barche, ma erano già state prese a nolo. Mia nonna era molto seccata, rimproverò i miei cugini che non ne avevano fissata una in tempo, e cominciò a lamentarsi. Mia madre cercò di calmarla, dicendole che a Lu-chen gli spettacoli erano migliori che nei piccoli villaggi, che ci si poteva andare più volte all'anno, che non faceva nulla se restavo a casa. Ma io ero sul punto di piangere, e mia madre cercò in tutti i modi di convincermi a non fare storie, per non dispiacere alla nonna; aggiunse che non potevo andare con altra gente, perché la nonna sarebbe stata in ansia.
In poche parole, tutto era andato in fumo. Nel pomeriggio, dopo la partenza dei miei amici, all'ora in cui cominciava lo spettacolo, mi sembrò di vederli comprare latte di soia davanti al palcoscenico e di udire il suono dei gong e dei tamburi.
Quel giorno non andai in cerca di gamberi, e mangiai molto meno del solito. Mia madre era addolorata, ma le cose erano andate così, e lei non poteva farci nulla. All'ora di cena, la nonna si accorse del mio stato d'animo e disse che avevo ragione di arrabbiarmi, erano stati negligenti e mai un ospite era stato trattato così male. Dopo cena, i ragazzi che erano stati all'opera mi si affollarono intorno e allegramente mi raccontarono tutto. Io non aprii bocca, e loro sospirarono dicendo che erano proprio dispiaciuti per me. Improvvisamente il più sveglio di loro, di nome Shuang-hsi, ebbe un'idea. "Una barca grande? Ma quella dell'ottavo prozio non è già rientrata?", disse. Gli altri capirono al volo e cominciarono a discutere animatamente; così una decina di ragazzi si offrì di portarmi a teatro. Tornai a essere di buon umore. Mia nonna invece non era tranquilla, diceva che non c'era da fidarsi perché erano tutti ragazzi; mentre dal canto suo mia madre sosteneva che non si poteva chiedere a un adulto di accompagnarci, ossia di stare in piedi tutta la notte, perché il giorno seguente tutti lavoravano.
Mentre il nostro destino era sospeso a un filo, Shuang-hsi andò diritto al nocciolo della questione e ad alta voce dichiarò: "Vi garantisco che andrà tutto bene! La barca è grande, Hsün è un ragazzo tranquillo, e noi sappiamo tutti nuotare".
Era vero. Tra questi ragazzi non c'era uno che non nuotasse come un pesce, e due o tre erano addirittura nuotatori di prim'ordine.
La nonna e la mamma si lasciarono convincere e non fecero altre obiezioni. Ambedue sorridevano quando ci precipitammo fuori.
Improvvisamente non ebbi più quel gran peso sul cuore e mi sembrò di volare. Quando fummo per la strada, al chiarore della luna vidi una barca con la tenda bianca ormeggiata al ponte. Saltammo a bordo, Shuang-hsi prese la pertica di prua e Ah-Fa quella di poppa; i ragazzi più piccoli si sistemarono con me al centro della barca, i più grandi si sedettero a poppa. Mia madre ci aveva accompagnato, ma non ebbe neanche il tempo di dire "Mi raccomando!", che eravamo partiti; la barca arretrò di qualche metro, poi finalmente passò sotto il ponte e iniziò il suo viaggio. Erano stati sistemati due remi, ognuno manovrato da due rematori che si davano il cambio ogni cinquecento metri; e le chiacchiere, le risate e le grida si univano alla sciabordio dell'acqua contro la chiglia. La barca sembrava volare; a destra e a sinistra si stendevano campi di grano e di fave color smeraldo.
Il profumo delle fave, del grano e delle erbe sul fondo si univa alla caligine del fiume, e attraverso la nebbia brillava debolmente la luna. Lontano le montagne grigie e ondulate, come bestie di ferro saltellanti, filavano rapide verso poppa, eppure mi pareva che la barca andasse tanto piano. I rematori si erano dati il cambio per la quarta volta, quando apparvero i contorni indecisi di Chao-chuang e ci sembrò di udire le deboli note di un canto. Si scorgevano anche molte luci, e pensammo che se non erano le lanterne dei pescatori erano quelle del palcoscenico.
Quello che ci giungeva alle orecchie era forse il suono di un flauto. La musica mi calmava e mi trasportava lontano, e ben presto mi parve di perdermi con essa, nell'aria della notte carica del profumo delle fave, del grano e delle piante acquatiche.
Le luci si avvicinavano: erano le barche dei pescatori, e allora capii che ciò che contemplavo da un pezzo non era affatto Chao-chuang. Proprio davanti a me c'era una pineta dove avevo giocato l'anno prima; rivedevo il cavallo di pietra caduto sul fianco, e una pecora pure di pietra accovacciata tra l'erba. Oltrepassato il bosco, la barca entrò i un'insenatura e davanti ai nostri occhi apparve Chao-chuang.
Gli sguardi furono subito attirati dal palcoscenico, costruito fuori del villaggio su un pezzo di terreno incolto presso il fiume. Al chiarore lunare i suoi contorni erano indecisi, appena distinguibili dal paesaggio circostante, e mi sembrò che il paese delle fate che avevo visto nei libri fosse diventato realtà. La barca avanzava più in fretta, e ora riuscivamo a vedere gli attori muoversi sulla scena in mezzo ad uno sfavillio di colori, mentre sul fiume, proprio vicino al palcoscenico, le barche della gente venuta da lontano ad assistere allo spettacolo formavano con le loro tende una grande macchia scura.
- Non c'è posto vicino al palcoscenico, - disse Ah-Fa, - ma possiamo guardare da lontano.
La barca rallentò, e poco dopo eravamo arrivati. In effetti non potemmo avanzare oltre, e dovemmo ormeggiare persino più lontano dell'altare degli dèi, che sorgeva proprio di fronte al palcoscenico. Del resto, a parte il fatto che non c'era posto, non avremmo mai voluto che la nostra barca, con la sua tenda bianca, si mescolasse a tutte quelle barche dalle tende scure…
Mentre ci affrettavamo a ormeggiare, vidi sul palcoscenico un uomo dalla lunga barba nera, con quattro bandiere fissate sul dorso; armato di un'alabarda, combatteva da solo contro un gruppo di uomini a torso nudo. Shuang-hsi mi spiegò che si trattava di un famoso acrobata, capace di fare di seguito ottantaquattro salti mortali. Li aveva contati proprio quel pomeriggio.
Ci riversammo a prua per assistere al combattimento, ma l’acrobata non fece alcun salto mortale. Alcuni del gruppetto a torso nudo fecero qualche capriola, poi sparirono dietro le quinte. In seguito comparve una ragazza che cominciò a cantare con voce nasale.
- La sera non ci sono molti spettatori, - disse Shuang-hsi, - e l’acrobata non si spreca di certo. Chi è che fa sfoggio del proprio talento davanti a una platea vuota?
Shuang-hsi aveva ragione, non era rimasto quasi nessuno. I contadini dovevano lavorare il giorno dopo e non potevano stare in piedi tutta la notte; perciò erano andati a dormire; erano rimasti soltanto, qua e là, alcuni gruppetti di sfaccendati di Chao-chuang e degli altri villaggi vicini. Le famiglie ricche del posto erano ancora nelle loro barche dalla tenda nera, ma non badavano all’opera; la maggior parte erano andate proprio sotto il palcoscenico a mangiare dolci, frutta e semi di melone. Il pubblico era praticamente assente.
Per dire la verità, i salti mortali non mi attiravano molto. Desideravo soprattutto vedere uno spirito di serpente fasciato di bianco che si teneva sul capo un bastone sormontato da una testa di rettile; poi mi interessava un attore vestito di giallo che saltava imitando la tigre. Ma nonostante l’attesa, non si videro. La ragazza uscì ed entrò un vecchio attore che faceva la parte di un giovane. Cominciavo ad essere stanco e chiesi a Kuei-sheng di comprarmi del latte di soia. Tornò poco dopo dicendo:
- Non ce n’è. Il sordo, l’uomo che lo vende, se n’è andato. Questo pomeriggio ce n’era; ne ho bevuto due ciotole. Ti andrò a prendere un po’ d’acqua.
Rifiutai l’acqua e mi sforzai di guardare quello che succedeva. Non so più quel che vidi; mi pareva che i volti degli attori diventassero sempre più strani, che i lineamenti si cancellassero fondendosi in una superficie più piatta. I ragazzi più piccoli sbadigliavano, mentre i più grandi chiacchieravano fra loro. Il nostro interesse si risvegliò solo quando sul palcoscenico legarono a una colonna un buffone con la camicia rossa, e un vecchio dal barbone grigio cominciò a frustarlo; allora ridemmo di cuore. Penso che fosse la parte migliore dello spettacolo.
Ma poi comparve una vecchia. Era il personaggio che temevo di più, e quando si sedette per cantare, ebbi ancora più paura; dall’aria contrariata degli altri, mi accorsi che anche loro condividevano il mio stato d’animo. Al principio, la vecchia camminò avanti e indietro, poi si sedette su una sedia, proprio al centro del palcoscenico. Provavo una sensazione di angoscia, e Shuang-hsi e gli altri cominciarono a bestemmiare. Attesi con pazienza, e quando la vecchia alzò una mano, credetti che stesse per finire; contrariamente a quanto mi aspettavo, la mano si abbassò lentamente, e lei continuò a cantare come prima. Nella barca, alcuni ragazzi si lasciarono sfuggire un sospiro di delusione mentre gli altri ricominciavano a sbadigliare. Shuang-hsi allora non ne poté più; disse che la vecchia era capace di cantare fino all’alba, e che era meglio andar via. Fummo tutti d’accordo, e ritrovammo l’entusiasmo della partenza. Tre o quattro ragazzi si precipitarono a poppa e, afferrate le pertiche, indietreggiarono di qualche metro; poi, fatta girare la barca, impugnarono i remi e maledicendo la vecchia cantante ripresero la via di casa.
A giudicare dalla luna ancora alta nel cielo, non eravamo rimasti a lungo a vedere lo spettacolo, e quando fummo lontani da Chao-chuang l’astro sembrò brillare di una luce insolita. Ci voltammo a guardare il palcoscenico illuminato dalle lanterne; ci apparve come l’avevamo visto all’arrivo, coi contorni indecisi come un padiglione di fate e immerso in vapori rosati. Ci giunsero di nuovo alle orecchie le note melodiose di un flauto. Pensai che la vecchia doveva aver finito di cantare, ma non osai chiedere di tornare indietro.
Ben presto superammo la pineta. La barca avanzava veloce, mentre il buio si faceva sempre più fitto; doveva essere molto tardi. I vogatori ridevano e imprecavano parlando degli attori, e intanto acceleravano il ritmo. Lo sciabordio dell’acqua contro la prua si era fatto più distinto, e la barca sembrava un grande pesce bianco guizzante fra la spuma, con un carico di ragazzi sul dorso. Alcuni vecchi pescatori che stavano fuori tutta la notte fermarono le zattere per salutarci.
Quando fummo a un terzo di miglio da P’ing-ch’iao, la nostra barca rallentò e i rematori dissero che erano stanchi di vogare così forte. A parte questo, erano diverse ore che non toccavamo cibo. Questa volta fu Kuei-sheng ad avere un’idea; disse che le fave lhoan erano mature, che a bordo avevamo della legna e che potevamo prenderne un poco per cuocere le fave. Tutti furono d’accordo, e immediatamente puntammo verso la riva. I campi si stendevano neri come la pece, pieni di fave lohan.
- Ehi, Ah-Fa! Da questa parte c’è la tua famiglia, e da quell’altra il vecchio Liu I. Dove andiamo?
Shuang-hsi era stato il primo a saltare a terra e ci stava chiamando.
Mentre scendevamo anche noi, Ah-Fa disse:
- Aspettate qui, vado a dare un’occhiata.
Percorse i due campi tastando le fave, poi alzò la testa e disse:
- Prendiamo le nostre, sono molto più grosse.
Gridando ci sparpagliammo, e ognuno prese un’enorme manciata di fave che gettò nella barca. Shuang-hsi pensò che se ne prendevano ancora, la madre di Ah-Fa se ne sarebbe accorta e ci saremmo trovati nei guai; allora andammo a coglierne delle altre nel campo del vecchio Liu I.
Poi alcuni dei ragazzi più grandi ripresero a remare, ma lentamente; altri accesero un fuoco a prua e intanto i più piccoli, tra cui io, sgranavamo le fave. Furono cotte in pochissimo tempo; allora affidammo la barca alla corrente e ci sedemmo in cerchio mangiando con le mani. Dopo ci rimettemmo in viaggio e intanto cercavamo di lavare bene il tegame e di gettare tutte le bucce nel fiume, per far scomparire ogni traccia. Shuang-hsi non era molto tranquillo; avevamo usato il sale e la legna dell’ottavo prozio, e il vecchio era così scaltro che se ne sarebbe certamente accorto e ci avrebbe sgridati. Discutemmo un momento e decidemmo che non avevamo nulla da temere. Se ci avesse rimproverato, gli avremmo detto di restituire il ramo di pino trovato sulla riva l’anno precedente, e poi l’avremmo chiamato “vecchio rognoso”.
- Siamo tutti qui. Cosa poteva accadere? Non vi avevo promesso che sarebbe andato tutto bene?
Da prua risuonò all’improvviso la voce di Shuang-hsi.
Guardando avanti, vidi che eravamo già a P’ing-ch’iao e che ai piedi del ponte c’era qualcuno; era mia madre. Le parole di Shuang-hsi erano rivolte a lei. Mi diressi a prua mentre la barca scivolava sotto il ponte, poi si accostò e noi scendemmo a terra. Mia madre era piuttosto arrabbiata e ci chiese perché eravamo tornati così tardi (era infatti passata la mezzanotte). Ma poco dopo era nuovamente di buon umore e sorridendo invitò tutti a casa a mangiare un po’ di riso abbrustolito.
Le risposero che avevano tutti mangiato qualcosa, che avevano sonno e per questo era meglio andare subito a letto; così ognuno tornò a casa propria.
Il giorno dopo mi alzai a mezzogiorno, ma nessuno parlò di una lite con l’ottavo prozio a proposito del sale e la legna. Nel pomeriggio andammo come al solito in cerca di gamberi.
- Shuang-hsi e voi piccole canaglie, ieri mi avete rubato le fave! Non solo non le avete colte come si conviene, ma avete pure calpestato qualche pianta!
Levai il capo e vidi il vecchio Liu I, su una zattera; era andato a vendere le fave e sul fondo dell’imbarcazione c’erano quelle avanzate.
- È vero. Ma avevamo un ospite. Non intendevamo prendere proprio le tue. Guarda, hai spaventato il mio gambero ed è scappato!
Era Shuang-hsi a rispondere.
Quando il vecchio mi vide, puntò la pertica contro il fondo e si fermò, poi ridendo disse:
- Ah! Erano per un ospite! Allora avere fatto bene, - e rivolgendosi a me aggiunse: - E l’opera, ieri, ti è piaciuta?
- Sì, - risposi, e feci un cenno con la testa.
- E le fave erano buone?
- Molto, - nuovamente chinai il capo in segno di assenso.
Contrariamente a quanto mi aspettavo, il vecchio era veramente soddisfatto. Alzò il pollice e disse:
- È inutile, solo chi ha studiato e viene da una grande città sa apprezzare ciò che è buono! Le fave per la semina me le scelgo una per una. Qui in campagna non si sa ciò ch’è buono e ciò ch’è cattivo, e c’è persino chi dice che le mie fave non sono saporite come quelle degli altri. Ne porterò un po’ a tua madre perché le assaggi…
Detto questo si allontanò.
Quando mia madre mi chiamò per la cena, sulla tavola c’era un gran piatto di fave, che il vecchio Liu I ci aveva portato in dono, alla mamma e a me. Sentii che aveva tessuto le mie lodi davanti a lei.
- È così giovane, - aveva detto, - eppure capisce certe cose! Da grande supererà tutti gli esami ufficiali! La vostra fortuna è assicurata!
Ma quando mangiai le fave non mi parvero così buone come la sera prima.
A dire il vero, dopo quella notte non ho mai più mangiato fave così buone né visto un’opera così bella.
1 Famoso attore dell'opera di Pechino
2 Uno dei più noti discepoli di Buddha. Scese all'inferno per salvare sua madre.
3 Altro attore famoso dell'opera di Pechino, che interpretava parti femminili.
4 Lo Shih-ching (Libro delle odi o Libro delle poesie) è un'antologia di trecentocinque composizioni poetiche. Secondo la tradizione, Confucio ne sarebbe stato il raccoglitore. Il testo che possediamo risale al II secolo a.C.
Ottobre 1922
Da Fuga sulla luna, Garzanti, 1983
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