....Testimonianze
...1. Alla Triennale in mostra il- .......teatro cinese
...2. L'opera del villaggio......... ......(Lu Hsun)
...3. Le mie opere preferite...... ......(Mei Lanfang)
...4. L'ambiguo incontro: la...... .......Signora e l'attore dan,,,,,,, ,,,,,,,(Rosanna Pilone)
...5. Marionette e teatro delle... ......,ombre
...6. I luoghi scenici nel.tempo
...7. Musica e strumenti........... .......musicali (Yu Weijie)
...8. Il teatro cinese e quello..... ......occidentale: due tecniche.. ......contrastanti....................... .....,(Huang Zuolin)
...9. Goldoni in Cina................ ,,,,,,,(Yu Weijie)
Triennale: teatro cinese fra tradizione e realtà
di Anna Ceravolo

Architetture, costumi e scenografie in una bella mostra. Dalle prime manifestazioni degli sciamani, ai giullari di corte, all’Opera di Pechino e, con la fondazione della Repubblica, l’avvento del “teatro parlato” e l’apertura all’Occidente – Ma oggi i giovani amano meno il teatro

Giovedì 23 novembre 1995, presso il Palazzo della Triennale di Milano, si è inaugurata la mostra “Teatro cinese: architetture, costumi, scenografie”. Ce ne parla la curatrice Rosanna Pilone.
Hystrio – Perché questa mostra?
Pilone – Per il motivo per cui sono fatte tutte le mostre: la conoscenza, e questa cultura è pressoché ignota in Italia. Si sarebbe potuta invitare una compagnia a dare spettacolo qualche sera, ma una mostra lascia più spazio alla riflessione. C’è bisogno di creare degli stimoli, per questo la vorremmo una mostra itinerante, che fosse vista in Europa; per ora siamo in trattative con la Germania. In Italia, purtroppo, abbiamo ancora un orizzonte limitato. Il nostro mondo teatrale, specialmente, è molto chiuso. C’è molta arroganza, io credo, la convinzione di essere la prima cultura al mondo, e su questo non sono d’accordo. Noi non siamo la prima cultura al mondo; non siamo neanche l’ultima, certo. In Oriente ci sono culture stupende e il nostro è un paesino piccolo, il mondo è vasto, e noi ce ne stiamo qui coi nostri problemini, anche teatrali.
HY – A che pubblico è rivolta la mostra?
P. – È rivolta a tutti, non solo ad esperti di teatro. È una mostra quasi didattica, proprio perché la conoscenza di base è scarsa.
HY – Com’è strutturata la mostra, e quali sono i pezzi in esposizione più significativi?
P. – Io direi tutti, e non per presunzione. La mostra è strutturata secondo un percorso che dalle origini, dalle prime manifestazioni degli sciamani, dei giullari di corte e degli acrobati arriva all’oggi.

Teniamo presente che in Cina i vari generi hanno sempre coesistito insieme. L’opera era cantata, danzata, recitata: non come da noi con il melodramma, poi il balletto, poi il teatro di prosa. Come vuole la filosofia cinese tutti gli aspetti devono confluire in un tutto globale, senza scissioni. Nella seconda parte sono esposti numerosi modellini di teatri, dai templi buddisti, confuciani e taoisti, alle case da tè dell’Ottocento. La terza sezione è dedicata all’Opera di Pechino che è il teatro dell’Ottocento, l’ultimo grande teatro cinese, la sintesi di una tradizione di secoli. Questo genere richiede ruoli fissi; ad ogni personaggio corrisponde un trucco, un costume e non è assolutamente possibile uscire dal ruolo. Per questo spesso lo si definisce teatro confuciano, perché secondo Confucio ogni cittadino deve stare nel proprio ruolo: l’imperatore, come l’aristocratico, come il contadino; egli voleva una società immobile di ruoli fissi. In teatro era lo stesso. L’ultima parte riguarda il Novecento. Con la fondazione della Repubblica nel 1911 il teatro classico, cioè l’Opera di Pechino, entra in crisi. Nasce il teatro di prosa. Naturalmente grazie all’incontro con l’Occidente perché ci sono molti intellettuali che studiano in Inghilterra, in Francia, e che per la prima volta conoscono un teatro che, contrariamente alla loro tradizione, è solo parlato. E la nascita del teatro di prosa è, per la Cina, l’innovazione teatrale del secolo. Con l’avvento del teatro di prosa in molti hanno accusato la Cina di aver copiato dall’Occidente. Dire “copiato” è eccessivo, hanno semplicemente studiato ciò che fanno anche gli occidentali quando vanno in Oriente. Certamente questo “teatro parlato”, come lo chiamano, è più legato alle città, che non ai villaggi contadini. Le città sono le zone più ricche, in città ci sono gli intellettuali, c’è più movimento, più fermento a livello di pensiero. Chiaro che in un villaggio sarà difficile vedere un teatro di prosa.
HY – In che modo ancora l’Occidente ha esercitato delle influenze sul teatro cinese?
P. – Secondo me la Cina dall’Occidente ha tratto motivi di regia e scenografia, che esistevano ma limitatamente e particolari. Nel teatro classico non c’era scenografia: si usavano un tavolo, due sedie, e basta. Era un teatro simbolico. Per quanto riguarda la regia, dominava il maestro-attore che dirigeva gli altri, stabiliva i compensi, decideva di ogni cosa. Gli attori d’altra parte erano imprigionati in una partitura rigida e fissa, e non avevano nessuna libertà creativa. In condizioni simili non potevano esserci innovazioni. In seguito, invece, la Cina ha avuto dei grandi registi. Le cito solo Huang Zuolin che sosteneva una via cinese al teatro, rimanendo nel solco della tradizione, senza spostamenti ad Occidente. Io l’ho conosciuto: era non solo un grande regista, ma un grande uomo, particolare.
HY – E gli artisti occidentali hanno guardato al teatro cinese?
P. – Qualcuno sì, ma l’Italia è un caso un po’ particolare perché non ha una tradizione di studi orientali come invece può vantare l’Inghilterra o la Francia. Alla base c’è che l’Italia non ha avuto parte alla dominazione coloniale in Asia. So che Eugenio Barba si è interessato al teatro cinese, e che Nicola Savarese ha scritto dei libri nei quali ha preso in esame anche il teatro dell'Oriente. Ho nominato prima Huang Zuolin: è venuto a parlare delle sue regie di Shakespeare proprio a Lecce dove insegna Savarese. Strano che un regista cinese vada a Lecce, ma evidentemente lì c’era un interesse. Qui a Milano, invece… bè, non voglio far polemiche.
HY – Gli autori e i registi italiani sono conosciuti in Cina?
P. – Per il momento no, mi riferisco ai registi. Anche se credo che sappiano chi è Strehler. Fra gli autori ultimamente si è rappresentato Goldoni, e la tv ha dato un’opera di Pirandello che ha avuto 300 milioni di telespettatori; bè, lì sono un miliardo e due… Probabilmente incuriosiva, e poi gli intellettuali cinesi amano Pirandello, lo ritengono l’autore del dubbio, colui che pone degli interrogativi. Goldoni invece, per loro, è l’autore del teatro realista. Certo, abituati com’erano a recitare in modo forzato… per loro Goldoni è solo realismo.
HY – Tornando alla mostra: ci saranno degli incontri di approfondimento, tra cui la presentazione del suo libro Oltre la maschera. Com’è nata l’idea del libro?
P. – Nell’Ottocento le donne non potevano recitare per cui gli uomini interpretavano le parti femminili. Quando ero in Cina mi sono state raccontate delle storie terribili su questo argomento. Dapprima volevo scrivere un saggio, poi siccome i saggi non li legge nessuno ho pensato di scrivere un romanzo breve sull’addestramento di questi attori che erano chiamati “dan”. Erano i bambini poveri dei contadini che venivano comprati e portati nelle città. Lì, vicino a un maestro-attore per sette, otto anni erano addestrati a fare le donne sulla scena, ed era una violenza dentro la violenza. A sedici anni venivano messi sul palcoscenico. A ventuno, ventidue anni erano attori finiti. Molta prostituzione, molta omosessualità: era un ambiente terribile. Presenteremo anche Tradizione e realtà del teatro cinese, il primo libro in italiano sul teatro cinese. È scritto da Yu Weijie, docente dell’Accademia teatrale di Shanghai e attualmente in Germania per il PHY D.. Ci sarà anche uno stage di trucco, molto importante in Cina dove non viene usata la maschera.
HY – Che spazio occupa e che funzioni ricopre oggi il teatro all’interno della società cinese?
P. – Come da noi la situazione è mutata: c’è il cinema, la televisione; l’ultima volta che sono stata a Shanghai, un anno fa, imperava il karaoke. È un momento di transizione, questo, per la Cina. E poi si sa, il teatro comunque costa, anche in Italia è in crisi. Le nuove generazioni sono poco interessate al teatro e lo dimostra anche il fatto che sono molto pochi gli allievi delle scuole di teatro classico. Credo che rimarrà solo come testimonianza del passato.
HY – Credevo che l'Opera di Pechino dopo la crisi durante la Rivoluzione culturale fosse tornata in auge.
P. – La Rivoluzione culturale l’aveva completamente spazzata via, ma ora a Pechino ci saranno rappresentazioni (dicono) una volta al mese. E poi ci sono i turisti.
HY – Oggi, a distanza di tempo, come giudica la Rivoluzione culturale? Ha contribuito a far progredire o a far regredire il teatro?
P. – Per certi aspetti è stata nefasta. Però ha permesso uno stacco totale dal passato. Di sicuro è stata una follia per come si è svolta, ma forse alcuni interventi erano a ragione. Noi non possiamo capire certi problemi: un miliardo e due di popolazione, con un tasso altissimo di analfabetismo e di povertà.
HY – Quali temi tratta il teatro di prosa contemporaneo?
P. – Il tema attuale è come porsi di fronte al consumismo occidentale: se accettarlo in toto, oppure se cercare di mantenere la propria identità, la propria eredità.
HY – Quale futuro si può prospettare per il teatro cinese?
P. – La televisione, l’informatica, la telematica avanzano; è come se mi chiedesse quale futuro si può prospettare per il libro. Io prospetto poco futuro.

Da “Hystrio”, n. 1/1996